Siamo testimoni di una rivoluzione nelle nostre conoscenze
del contenuto e dell'architettura del Sistema Solare esterno.

A Stern e H. Campins, 1996


The Edgeworth-Kuiper Belt

Kuiper-Belt Objects


 

NOTA STORICA

L'incertezza sulla definitiva completezza del Sistema Solare non venne totalmente cancellata dalla scoperta di Plutone; per molti anni, anzi, continuò la ricerca di un nuovo pianeta, molto enfaticamente chiamato Pianeta X (dove X significava sì "decimo", ma aggiungeva una giusta dose di "mistero" all’impresa...).  Il principale argomento che spronava i ricercatori era la certezza che le irregolarità rilevate nei moti di Urano e Nettuno non potevano essere ascritte al minuscolo Plutone, di massa troppo piccola per assicurare anche una minima rilevabile perturbazione gravitazionale.
Vennero pertanto attivate ricerche notevoli ed impegnative di oggetti celesti giacenti nei pressi del piano dell'eclittica, ma i ripetuti insuccessi finirono con lo scoraggiare anche i più accaniti sostenitori dell'esistenza del decimo pianeta.  Clyde Tombaugh stesso, dopo aver esaminato praticamente tutto il cielo visibile dall’Osservatorio Lowell, giunse alla conclusione che avrebbe potuto anche esistere un pianeta come Plutone, ma solamente ad una distanza superiore a 60 U.A.
I calcoli effettuati (quasi sempre basati sulle già citate anomalie orbitali di Urano e Nettuno) portarono alcuni astronomi a determinare le caratteristiche fisiche ed orbitali di questo ipotetico pianeta, ma con risultati spesso in contrasto tra loro.  C. Kowal, dopo aver effettuato calcoli analoghi, giunse ad una singolare conclusione: "Ho ottenuto predizioni perfettamente ragionevoli dell'orbita del pianeta sconosciuto usando sia i residui di Urano sia, successivamente, quelli di Nettuno; l'unico problema è che le due predizioni non vanno molto d'accordo tra loro..." (Littmann, 1989).
Alcune delle "predizioni" relative al Pianeta X sono riportate nella seguente tabella:

  Harrington Powell Gomes Andersonn
Massa (MT ) 4 0.35 0.49 5
Distanza (A.U.) 101.2 34.6 44 79-100
T (anni) 1019 204 292 700-1000
Eccentricità 0.411 0.335 0.05 notevole
Inclinazione 32.4 5.43 bassa bassa
Magnitudine 14 14 14-15 ?

(Da: Littmann, Sky & Telescope, 6, 596; 1989)

Il disegno delle orbite di tre di questi "candidati" è riportato nella Figura 23 (Littmann, Sky & Telescope, December 1989, pag. 598): notiamo che per due di essi è già pronto persino il nome che dovrà avere allorchè venisse scoperto...
Figura 23 - Il Pianeta XAnche dall'analisi delle comete furono tratte argomentazioni per ipotizzare la presenza di un pianeta trans-plutoniano.   Considerando le comete a corto periodo e raggruppandole in base a caratteristiche orbitali simili, si erano identificate delle famiglie che potevano essere associate ad un pianeta ed in tal modo nel 1950 Schütte assegnò a Giove 52 comete, a Saturno 6, a Urano 3, a Nettuno 8 e a Plutone 5; mise inoltre in evidenza una famiglia di altre 8 comete e le associò ad un ipotetico nuovo pianeta.  Considerando poi la media delle distanze afeliche delle comete di ciascuna famiglia, Schütte notò come vi era uno scarto di circa il 10% rispetto alla distanza afelica del pianeta associato; applicando lo stesso criterio statistico alla famiglia senza pianeta, ipotizzò per quest'ultimo una distanza dal Sole di 77 U.A. (Maffei, 1977).
Inutile dire che anche in questo caso la ricerca del pianeta non diede alcun frutto.
Questa situazione di stallo venne in qualche modo superata nel 1977 grazie alla scoperta di Chirone.
Dal dicembre 1976, infatti, C. Kowal aveva intrapreso una ricerca sistematica di oggetti insoliti del Sistema Solare analizzando con un blink comparator lastre fotografiche prese in notti successive con il telescopio Schmidt da 48 pollici dell’Osservatorio di Monte Palomar per un totale di 160 campi stellari; la magnitudine limite delle lastre era circa mv=21 e ciò avrebbe consentito di rilevare oggetti in lento movimento fino ad una magnitudine di circa 20 (Kowal, 1989).  E fu proprio grazie a tale campagna osservativa, conclusasi nel febbraio 1985, che si giunse, nell’ottobre 1977, alla scoperta di Chirone; ma questa scoperta non fu l’unico risultato della survey di Kowal poichè fu accompagnata dall’identificazione di altri oggetti di natura asteroidale e cometaria.
La tabella seguente sintetizza i risultati della ricerca:

 

OGGETTI SCOPERTI NEL CORSO DELLA SURVEY IAUC

Asteroidi

1976 YB Oggetto tipo-Pallade; i=31, e=0.25  
(2101) Adone Riscoperto nel Febbraio 1977 3041
1977 HB Oggetto tipo-Apollo; q=0.7 3066
(2060) Chirone Scoperto in prossimità dell’afelio; 17.8 U.A. 2139
1978 TB AsteroideTroiano  
1980 RB1 Mars crosser  
1980 RG1 Oggetto tipo-Amor 3522
1980 RM1 Mars crosser  
1980 WF Oggetto tipo-Amor; q=1.08 3549
1981 QB Oggetto tipo-Amor; q=1.08 3631

Comete

P/Taylor B Riscoperta nel dicembre 1976 3033
1977 f Scoperta nell’aprile 1977; q=4.65 3066
P/Jackson-Neujmin Riscoperta nel novembre 1978 3311
1979 h Scoperta nel luglio 1979; q=2.28 3395
1983 t Kowal/Vavrova; Scoperta nel maggio 1983 3868
1984 n Kowal/Mrkos; Scoperta nell’aprile 1984 3988

(Da: Kowal, Icarus, 77, 122; 1989)

Certamente Chirone non poteva essere, nè per dimensioni nè per posizione, il misterioso pianeta ricercato per anni, ma cominciò con il tempo a profilarsi l'idea che potesse trattarsi del prototipo di una nuova classe di oggetti celesti che, assieme a milioni di oggetti molto piccoli, formasse quell'anello di detriti primordiali ipotizzato da Edgeworth e Kuiper all’inizio degli anni ‘50.  Il termine utilizzato per identificare tali planetesimi è quello generico di Kuiper-Belt Objects, anche se A. Stern (1992) ha pittorescamente coniato il termine di ice dwarfs, sintetizzando in tal modo le caratteristiche principali di questi piccoli e ghiacciati corpi celesti.
Grande importanza nell'individuazione di tali oggetti assume l'impiego dell'HST in forza delle limitazioni imposte dall'atmosfera, che rendono l'osservazione e la scoperta da Terra veramente problematiche.  E' recente, proprio grazie all'HST, l'identificazione di moltissimi oggetti in movimento sul piano dell'eclittica ad una distanza superiore a quella di Plutone (IAUC 6163, 17 Aprile 1995).


IL SISTEMA PLUTONE-CARONTE

E' sintomaticamente proprio da Plutone e dal suo satellite Caronte che possiamo iniziare l'analisi di questa nuova popolazione di oggetti del Sistema Solare: sono molti, infatti, i problemi irrisolti che il sistema del nono pianeta ci sottopone, e altrettante le nuove prospettive.
A proposito della classificazione di Plutone come pianeta già abbiamo parlato all’inizio di questo libro; non credo, comunque, si possa dissentire da Taylor (1992) quando afferma che vi sono due ragioni fondamentali per le quali non si possa accordare a Plutone lo status di pianeta, vale a dire la massa estremamente ridotta del sistema Plutone-Caronte (1.36x1025 g equivalenti a sole 0.0023 masse terrestri) e l'orbita fortemente eccentrica (e = 0.250) ed inclinata (i = 17.2 gradi).
Ma non sono solamente queste le caratteristiche che fanno di Plutone un oggetto decisamente anomalo, un oggetto che, impiegando le parole di Stern (1992), "non ha niente di meglio da fare che sfidare la nostra convenzionale visione dell’architettura del Sistema Solare".
Infatti:
1. la sua orbita è in risonanza 2:3 con quella di Nettuno, e questo garantisce che, pur intersecandosi le orbite di questi due corpi celesti, non si determini una collisione;
2. i calcoli del suo moto orbitale su un periodo di 845 milioni di anni, effettuati da G.J. Sussman e J.L. Wisdom del MIT, indicano che l'orbita di Plutone è caotica: questo rende possibile che si sia formato altrove ed abbia assunto l'orbita attuale nel corso della sua evoluzione (Binzel, 1990);
3. il suo piano equatoriale è inclinato di 122 gradi rispetto al piano orbitale, situazione simile a quella riscontrabile per Urano ed indice di trascorsi dinamici molto travagliati;
4. la sua densità è maggiore della densità tipica dei corpi gravitanti a così elevata distanza dal Sole: fanno eccezione, oltre a Plutone, il suo satellite Caronte e Tritone, satellite di Nettuno.
L’ipotesi che subito viene spontaneo formulare è quella che porta a considerare Plutone un avanzo dei meccanismi di formazione planetaria, lanciato casualmente in un’orbita protetta (risonanza orbitale con Nettuno) ed in essa rimasto intrappolato: tutto sembrerebbe spiegato, tranne la presenza del suo satellite Caronte, scoperto da J. Christy nel 1987.
Il periodo di rivoluzione di Caronte (6.38723± 0.00027 giorni) corrisponde al periodo rotazionale di Plutone, e così i due corpi sono vincolati in una situazione di sincronismo rotazione/rivoluzione apparentemente unica tra i corpi di dimensione intermedia del Sistema Solare (è probabile che una situazione analoga si possa presentare nel caso di alcuni asteroidi dotati di satellite).  L’evoluzione mareale ha annullato ogni inclinazione tra le orbite originarie di Plutone e del suo satellite ed ha, inoltre, indotto tale orbita a diventare circolare: dall’analisi di tale situazione dinamica è impossibile stabilire se Caronte appartenga alla categoria dei satelliti regolari o a quella degli irregolari (Cruikshank e Brown, 1986), se la sua origine sia da ricercarsi nei momenti iniziali della formazione di Plutone stesso oppure in episodi successivi di impatto o cattura gravitazionale.
Molti dati relativi a questa "strana coppia" sono stati ricavati dallo studio delle occultazioni reciproche di Plutone e Caronte, verificatesi nel periodo 1985-1990, ma i risultati ottenuti sono talvolta discordanti con quelli forniti dalle occultazioni stellari, che forniscono valori di densità inferiori, dunque un più elevato rapporto ghiaccio/roccia.  Il dato oggi accettato per la densità è di 2.029 ± 0.032 g/cm3 (Tholen e Buie, 1990), e rende Plutone, come detto poc’anzi, molto simile a Tritone.  Ma gli elementi di somiglianza tra questi due corpi sono anche altri, come si può notare dalla seguente tabella:

  TRITONE PLUTONE
Diametro 2705 km 2330 km
Rotazione retrograda retrograda
Periodo di rotazione 5.9 giorni 6.4 giorni
Densità 2.07 g/cm3 2.02 g/cm3
Composizione superficie ghiaccio di metano e azoto ghiaccio di metano

(Da: Lang e Whitney, Vagabondi nello Spazio, 1994)

La considerazione di queste somiglianze ha portato ad ipotizzare una origine comune, identificata proprio nel sistema satellitare di Nettuno: il sistema sarebbe stato drasticamente perturbato da un incontro con un corpo esterno di grande massa, che avrebbe anche causato la perdita di Plutone (Harrington e Van Frandern, 1979).
La distruzione di un sistema regolare di satelliti come quello iniziale di Nettuno è certamente un evento possibile, ma si dovrebbe ipotizzare una massa del proiettile dell'ordine di 2-5 masse terrestri, postulando dunque l’esistenza di un oggetto planetario di cui non vi è praticamente alcuna traccia osservativa.
Ma questo non è l’unico aspetto problematico dell'ipotesi-urto; l'orbita di Nettuno, infatti, è quasi un cerchio perfetto (e<0.01), dunque non reca alcun segno tangibile di un possibile incontro, che dovrebbe, al contrario, essere dinamicamente devastante.   Aggiungiamo, infine, che la probabilità di una fuga di un satellite tipo Plutone è estremamente ridotta, anche perchè si dovrebbe rendere conto non solo della sua perdita da parte di Nettuno, ma anche del successivo intrappolamento in una risonanza orbitale proprio con lo stesso Nettuno.
E’ proprio la valutazione di questi fatti che ha portato ad identificare il responsabile della distruzione del sistema planetario di Nettuno proprio nella cattura di Tritone (Farinella et al., 1980); la cattura, avvenuta probabilmente non molto tempo dopo la sua formazione, ha collocato Tritone su un'orbita retrograda intorno a Nettuno e ciò ha costituito per il satellite l'inizio di forti sollecitazioni gravitazionali.  Le forze mareali devono averne riscaldato l'interno, e forse si possono attribuire a questo fenomeno le strane e complesse strutture visibili sulla superficie del satellite (Binzel, 1990).  Ricordiamo, a questo proposito, che le immagini della superficie alle quali R.P. Binzel si riferisce sono quelle inviate dalla sonda Voyager 2 che il 25 agosto 1989 ha sorvolato Tritone ad una distanza di meno di 40.000 km.  Per inciso, la densità di craterizzazione indica per la superficie di Tritone un’età di circa 3 miliardi di anni, dunque si tratta di un oggetto relativamente giovane, anche se le valutazioni differiscono da zona a zona anche di un fattore 5 (Taylor, 1992).
Se escludiamo, dunque, che l’origine di Plutone possa essere ricondotta alla distruzione del sistema satellitare di Nettuno siamo ancora al punto di partenza...
La natura caotica dell’orbita di Plutone rende molto difficile risalire con analisi dinamiche al suo luogo d’origine; si può, però osservare che:
  1. Si può escludere una origine nel Sistema Solare interno, e ciò non solo in forza della presenza su Plutone di ghiaccio d’acqua e di metano, ma soprattutto perchè non si conosce alcun meccanismo dinamico in grado di far superare ad un corpo celeste della zona interna la "barriera" costituita da Giove.
Se, poi, tale meccanismo esistesse davvero e fosse così efficiente, il Sistema Solare presenterebbe sicuramente una maggiore omogeneità tra i suoi componenti.
  2. Può essere esclusa anche un’origine nella zona di Giove-Saturno e questo perchè l’elevato rapporto roccia/ghiaccio di Plutone (0.68-0.80) male si adatta ai valori tipici dei satelliti di medie dimensioni di Saturno (0.40-0.60) e non sembra possibile, date le sue ridotte dimensioni, che la perdita di ghiaccio possa essere attribuita a fenomeni di riscaldamento accrezionale (fatto avvenuto, invece, per i corpi più grandi quali Ganimede, Callisto e Titano).  Certamente non si può escludere che la perdita di ghiacci possa essere imputata ad un impatto estremamente violento che ha rimosso il ghiaccio in modo preferenziale rispetto ai silicati, un po’ lo stesso meccanismo che su Mercurio avrebbe rimosso i silicati rispetto alla componente metallica.
  3. Allo stato attuale, però, l’unica regione possibile per collocarvi l’origine di Plutone è la zona trans-nettuniana: emerge in modo molto stringente, dunque, l’idea che questo corpo celeste sia strettamente imparentato con gli oggetti della Fascia di Edgeworth-Kuiper.
Se lo studio di Plutone presenta molti problemi ancora irrisolti, le cose si complicano ulteriormente se andiamo a considerare anche il suo satellite Caronte.  Le dimensioni di Caronte (caso unico nel Sistema Solare, paragonabile forse, con la dovuta cautela, al sistema Terra-Luna) sono la metà di quelle pianeta cui è gravitazionalmente legato, e la massa ne è circa il 20%: non si conoscono meccanismi di accrezione che possano originare una coppia di corpi celesti mutuamente gravitanti di dimensioni così simili tra loro.   L'origine del sistema può pertanto essere identificata solo con un meccanismo di tipo collisionale, ipotizzando, cioè, che Plutone e Caronte abbiano avuto un'origine indipendente e che siano giunti a formare l'attuale sistema in seguito ad un urto reciproco. (Stern, 1992).
L’ipotesi è certamente esaustiva (anche perchè ha una oggettiva conferma nell’elevato valore della densità di momento angolare, indice quasi certo di un’origine collisionale), ma offre il fianco ad una analisi di tipo statistico: quante sono le probabilità di una collisione tra due oggetti delle dimensioni di Plutone e Caronte?  Stern (1992) le considera praticamente nulle su tutta l'età del Sistema Solare, ma propone una possibile via d'uscita ipotizzando l'esistenza di una numerosa popolazione di oggetti tipo-Plutone.
Per poter considerare l'evento della collisione sufficientemente probabile (probabilità del 50% che si verifichi almeno una volta in 4.5 miliardi di anni) sarebbero necessari un migliaio di questi oggetti nella regione compresa tra 20 e 30 U.A.  Analogo discorso vale per la cattura di Tritone cui si accennava in precedenza: solo la presenza di molte centinaia di "Tritoni" renderebbe anche questo evento sufficientemente probabile (Stern, 1992).  Attualmente queste ipotesi statistiche vengono rese più percorribili dalle scoperte che, a ritmo incalzante, hanno concretizzato l'ipotesi dell'esistenza della Kuiper Belt (Cochran et al., 1995; Stern, 1995).
Comincia dunque in modo sempre più stringente a prendere piede l'idea che Plutone rappresenti il corpo di dimensioni maggiori (tra quelli fino ad ora conosciuti) degli oggetti che costituiscono la Fascia ipotizzata da Kuiper ed Edgeworth (Luu e Jewitt, 1996); l’analisi dei parametri orbitali degli oggetti scoperti nella zona trans-nettuniana ha mostrato per molti di essi l’esistenza di una risonanza orbitale con Nettuno uguale a quella che preserva Plutone da incontri ravvicinati con l’ultimo dei pianeti giganti, e ciò ha indotto i ricercatori ad introdurre la definizione di "Plutini" per tali oggetti.
Ma su questi corpi approfondiremo il discorso più avanti; per il momento ritorniamo nella zona planetaria ed esaminiamo le sorprese che anche qui ci vengono riservate.


2060 CHIRONE ED I CENTAURI

Chirone è forse uno dei corpi più anomali sia fisicamente che dinamicamente tra quelli conosciuti del Sistema Solare: percorre in 51 anni un'orbita fortemente eccentrica (e = 0.3786), con afelio posto a 18.9 U.A. e perielio a 8.5 U.A.  Al momento della sua scoperta (Kowal, 1977), Chirone fu classificato come asteroide e venne collocato nella classe tassonomica C, ma destò subito qualche perplessità sia la collocazione spaziale (prevalentemente tra Urano e Saturno) sia il tipo di orbita, più di tipo cometario che asteroidale.  La sua peculiarità era stata in qualche modo riconosciuta fin dalla sua scoperta, allorchè Marsden (IAUC 3129) lo soprannominò "Slow Moving Object Kowal".
Inizialmente il suo diametro era stimato tra 150 e 400 km (Stern; 1992), ma recenti osservazioni (Altenhoff e Stumpff, 1995) effettuate nelle onde millimetriche (250 GHz) fanno ipotizzare per Chirone un diametro di circa 170 km.
Le perplessità su Chirone, però, non provengono solamente dalla discordanza registrata tra dimensioni tipicamente asteroidali ed un'orbita di tipo cometario: osservazioni compiute tra il 1986 ed il 1988 indicavano senza ombra di dubbio variazioni di luminosità sicuramente attribuibili alla perdita di materiali volatili (Meech e Belton, IAUC 4770, 1989).  Chirone, in altre parole, aveva iniziato a sviluppare una chioma mostrando in tal modo una spiccata natura cometaria.  Erano state ipotizzate anche altre cause responsabili della variazione di luminosità osservata, quali la possibile forma irregolare o una variazione di albedo superficiale, ma la spiegazione in termini di produzione di una chioma cometaria era quella più convincente (Hartmann et al., 1990).
E non deve meravigliare il fatto che lo sviluppo della chioma avvenga ad una distanza così elevata dal Sole (circa 12.6 U.A.) dal momento che Meech e Jewitt nel 1987 avevano rilevato una chioma attorno alla cometa Bowell quando si trovava ancora a 13.6 U.A., e questa è, finora, la maggiore distanza in assoluto per l'osservazione di una chioma.   Tale osservazione è consistente con la sublimazione da CO2 ghiacciato.
Tuttavia il "record" della distanza per un’emissione cometaria potrebbe di nuovo toccare a Chirone, con 17.5 U.A., se venissero interpretate in tal senso le osservazioni del 1978 compiute da Bowell e Jewitt (Hartmann et al., 1990).   Sottolineiamo che, se si trattasse di una cometa, sarebbe senza dubbio caratterizzata da un nucleo di dimensioni di gran lunga maggiori di quello delle altre comete conosciute (circa 15 volte più grande del nucleo della cometa Halley).
Qualche perplessità ha suscitato la mancanza di chioma in occasione dell’ultimo passaggio di Chirone al perielio (osservazioni compiute il giorno 8 febbraio 1996) e tale comportamento potrebbe essere ricondotto al meccanismo di espulsione dei gas e delle polveri tipico delle comete, fenomeno che non riguarda, come si è visto, l'intera superficie, ma solo piccole regioni attive.
Per Chirone si presume che la superficie interessata all'attività di produzione della chioma sia <1% dell'intera superficie, ed il fatto che la sua attività sia stata più intensa all'afelio porta necessariamente a concludere che essa non dipenda solamente dalla distanza eliocentrica (Stern e Campins, 1996).  E' stata, in ogni caso, l'evidenza di questi fenomeni tipicamente cometari che ha suggerito per Chirone una interessantissima spiegazione: si potrebbe trattare dell'anello di congiunzione tra le comete ed i planetesimi ghiacciati che popolerebbero il Sistema Solare oltre Nettuno.
A rafforzare questa ipotesi è intervenuta, negli ultimi anni, la scoperta di oggetti celesti caratterizzati da orbita ed evoluzione dinamica simili a quelle di Chirone, indicati con il termine di Centauri.  Si tratterebbe di oggetti di dimensioni intermedie tra quelle tipicamente cometarie (1-20 km) e quelle dei piccoli pianeti ghiacciati quali Plutone (~2300 km) e Tritone (~2700 km).
La tabella seguente riassume alcune caratteristiche orbitali e fisiche dei Centauri conosciuti:

OGGETTO a (UA) Perielio (UA) e i Diametro (km) T rot. (h)
2060 CHIRONE 13.70 8.46 0.38 25 182±10 5.92
5145 PHOLUS 20.30 8.68 0.57 7 185±22 9.98
7066 NESSUS 24.73 11.84 0.52 16 62 (*)  
1994 TA 16.82 10.69 0.31 5 28 (*)  
1995 DW2 25.03 18.84 0.25 4 68 (*)  
1995 GO 18.14 6.79 0.62 18 60 (*)  
1997 CU26 15.72 13.05 0.17      

(*) valutato assumendo una albedo geometrica del 5% (valore tipico di una superficie cometaria)
(Tabella adattata da: Stern e Campins - Nature, 382, 507; 1996)

Il fatto che solo a tre degli oggetti riportati nella tabella sia stato attribuito un nome è legato alla consuetudine che, prima di assegnare un nome ad un nuovo oggetto celeste, debba essere nota con precisione la sua orbita.  La scoperta relativamente recente, e dunque la necessità di raccogliere dati più approfonditi, è perciò il motivo per il quale quattro di essi vengano identificati con le sigle assegnate nel momento della loro prima individuazione.  Gli studi sull'evoluzione dinamica delle orbite di oggetti provenienti dalla Fascia di Kuiper predicono l'esistenza, nella regione compresa tra 5 e 30 U.A. dal Sole, di una popolazione in equilibrio dinamico stimabile in 5x105 - 106 comete e ~30-300 oggetti tipo-Centauri con diametro di 100 km o maggiore, in orbita tra i pianeti giganti.
Essa deriverebbe da una popolazione 104 volte più numerosa, un grande bacino costituito appunto dalla Fascia di Kuiper (Stern e Campins, 1996).
In un approfondito studio (1996) J. Luu e D. Jewitt analizzano le diversità di colore tra i Centauri e gli oggetti della Kuiper Belt e concludono affermando di non aver rilevato significative differenze.  Questo non significa aver dimostrato in modo definitivo che la Fascia di Kuiper sia il luogo di origine dei Centauri, ma è certamente una significativa prova in questa direzione.
L'importanza dei Centauri quali oggetti provenienti dalla Fascia di Kuiper è enorme, e ci sono due buone ragioni per affermarlo:
  1. data la loro prossimità al Sole, essi risultano molto più luminosi di tutti gli altri oggetti provenienti dalla Fascia di Kuiper e dunque offrono possibilità maggiore di studio;
  2. nel corso della loro orbita, a differenza degli altri Kuiper-belt objects la cui situazione dinamica li mantiene in zone caratterizzate da temperature anche inferiori a 60-70 °K, giungono a sperimentare temperature di 120-150 ºK e questo spiega la possibilità di rilevare attività riconducibili a fenomeni di sublimazione, fatto evidenziato per il momento solamente per Chirone.
Le analisi fino ad ora compiute sui Centauri mostrano talvolta alcune discrepanze tra i parametri fisici quale ad esempio la morfologia superficiale; se la superficie di Chirone, infatti, può essere considerata grigia (vale a dire neutra), non è così per Pholus e per 1993 HA2 risultati estremamente rossi.  Nello studio appena citato, J. Luu e D. Jewitt sviluppano l'idea che le diversità di colore riscontrate siano da attribuire ad un meccanismo di rinnovamento superficiale dovuto ad episodi di collisione (collisional resurfacing) che contrasta con l'arrossamento causato dall'azione dei raggi cosmici sui composti organici delle superfici.  L'impatto, infatti, porterebbe in superficie del materiale non ancora bombardato dai raggi cosmici, dunque di colore più chiaro della restante superficie visibile.  Non si esclude, però, l'ipotesi che i differenti colori possano indicare diversa composizione chimica, riconducibile a luoghi di origine diversificati.
Poichè la densità superficiale del Kuiper disk è stimata (Stern, 1996) dell'ordine di quella della Fascia Principale degli asteroidi (vale a dire ~3x1023 g/UA2), zona nella quale si è visto come il processo di collisione giochi un ruolo evolutivo molto importante, è logico potersi aspettare che un oggetto proveniente da questa zona porti ancora sulla sua superficie i segni di recenti impatti.
Questa considerazione depone a favore dell'idea che Chirone (provenendo dalla Kuiper-belt) occupi la sua attuale orbita da tempi più recenti rispetto ad altri Centauri, da ciò discende che l'azione dei raggi cosmici non avrebbe ancora avuto modo di cancellare (arrossandone il colore) le zone superficiali messe allo scoperto dagli impatti.   L’ipotesi di una sua origine più recente troverebbe inoltre conferma nella presenza di quella attività cometaria assente, invece, negli altri oggetti ad esso simili.
Un ulteriore elemento che confermerebbe l'ipotesi dell'immissione recente di Chirone nella sua orbita attuale proviene proprio dall'analisi dinamica dell'orbita stessa, che risulta instabile e caotica su scale di tempi di poche migliaia di anni.  Il fatto, poi, che Chirone abbia incontri ravvicinati con Saturno in tempi dell’ordine di un migliaio di anni, rende questo corpo celeste molto simile a Phoebe, satellite di Saturno con dimensioni di 160 km, che occupa la sua attuale posizione quasi certamente in seguito ad un episodio di incontro ravvicinato che si è concluso con la sua cattura da parte del pianeta, evento testimoniato in modo quasi decisivo anche dalla sua orbita retrograda.   Tale somiglianza, inoltre, si manifesta anche nelle dimensioni e nel colore superficiale.
Da quanto si sta dicendo, dunque, emerge l'evidenza che le nostre conoscenze relative alle zone più esterne del Sistema Solare sono sul punto di essere radicalmente modificate; e non si tratta solamente di aggiungere un altro corpo celeste al gruppo dei pianeti (prospettiva che stava alla base della ricerca del Pianeta X), ma di rivedere l'intero modello aggiungendo una nuova numerosissima popolazione.


UNA POPOLAZIONE TUTTA DA SCOPRIRE

Nella descrizione dei fenomeni aggregativi che hanno portato alla formazione di Urano e Nettuno, F. Hoyle (1979) ipotizza, quale punto di partenza, uno strato di ghiacci con massa totale di circa 2x1026 kg (la massa complessiva attuale di Urano e Nettuno) condensatisi in blocchi, dotati di orbite quasi circolari nello stesso piano, in un tempo di poche rivoluzioni orbitali intorno al Sole.
Una distribuzione ordinata di orbite pressochè concentriche non è però destinata a durare per molto tempo perchè gli effetti delle reciproche perturbazioni gravitazionali finirebbero con il modificare drasticamente la situazione (Figura 24 - Hoyle, Cosmogonia del Sistema Solare, pag. 56-57, fig. 8-9) portando un sistema caratterizzato da orbite ordinate circolari (A) a trasformarsi in un sistema meno ordinato (B).

Figura 24 - Perturbazioni gravitazionaliLa scala temporale dell'aggregazione di Urano e Nettuno può essere riassunta nella seguente tabella:

Stadio Massa corpi
(kg)
N. corpi Scala temp.
(anni)
1 5 x 1018 4 x 107 103
2 4 x 1024 50 106-108
3 1026 2 3 x 108

(Da: Hoyle, Cosmogonia del Sistema Solare, pag.59)

Non appare dunque troppo azzardata l’ipotesi che molti dei planetesimi ghiacciati ipotizzati da Hoyle e presenti inizialmente in questa zona non siano stati interessati dai processi aggregativi sia per la possibile scarsa efficienza del meccanismo accretivo stesso, sia perchè alcuni di essi avrebbero occupato orbite sufficientemente sicure, protette, cioè, dall’incontro con altri corpi dall’azione di meccanismi di risonanza orbitale.  E non si può neppure scartare l'ipotesi che molti altri siano stati lanciati su orbite più esterne (o interne) al Sistema Solare o ne siano stati espulsi.  La possibilità, dunque, di trovare ancora di questi corpi nelle regioni più esterne del Sistema Solare (dove l'influenza gravitazionale dei pianeti più grandi è meno intensa) può perciò essere considerata una ipotesi percorribile.
Per inciso, in questo scenario ipotizzato da Hoyle il numero delle collisioni con corpi di questo tipo che possono aver interessato la Terra in 200 milioni di anni è circa 30.   Ipotizzando per ogni corpo una massa di 1020 kg ed il fatto che la Terra fosse stata in grado di trattenere tutto il materiale apportato dall'impatto, allora la massa totale del materiale verrebbe a quantificarsi in 3x1021 kg, in gran parte formato di ghiacci (soprattutto H2O e CO2) sufficiente a rendere ragione sia della quantità d'acqua degli oceani, sia dei carbonati presenti nelle rocce calcaree della Terra (Hoyle, 1979).
La presenza di planetesimi la cui accrezione sarebbe sfociata nella formazione di Nettuno è ipotizzata da molte teorie sull’origine del sistema planetario; si ritiene, inoltre, che questo pianeta si sia formato più vicino al Sole della sua posizione attuale.  Mentre accumulava materiale, il proto-Nettuno era interessato da un gran numero di incontri ravvicinati con i planetesimi presenti nella zona, deviandone una parte verso l’esterno (a costituire la Nube di Oort) ed altri verso le parti più interne; i modelli quantitativi mostrano che questi ultimi furono la maggioranza, cosicchè Nettuno finì per allargare gradualmente la sua orbita (con alcune conseguenze che approfondiremo parlando delle risonanze attive nella Fascia di Kuiper) fino a raggiungere quella odierna.
Negli anni ‘50 Edgeworth (1949) e Kuiper (1950) sottolineavano come non fosse plausibile l’idea che oltre Nettuno si potesse manifestare un repentino ed improvviso svuotamento di materiale planetario ed ipotizzavano, pertanto, la presenza di un disco di materiale "avanzato" dai processi di accrezione planetaria.  Date le ridotte dimensioni di questi planetesimi, la loro individuazione da Terra era praticamente impossibile con la strumentazione allora in possesso dei ricercatori, e a questo proposito già abbiamo avuto modo di sottolineare gli sforzi profusi nella ricerca del fantomatico Pianeta X.
Il nuovo grande impulso alla ricerca di oggetti posti ai confini della zona planetaria del Sistema Solare è venuto dalla fondamentale scoperta di 1992 QB1.  Si tratta di un oggetto trans-plutoniano (provvisoriamente chiamato Smiley) di magnitudine 23 scoperto il 30 agosto 1992 da D. Jewitt e J. Luu; la determinazione dei parametri orbitali ha richiesto molti mesi di osservazione a causa della velocità orbitale estremamente bassa (circa 75 arcsec/giorno).  Il diametro, dedotto dalla luminosità e dalla distanza, è stimato in circa 200 km.
Questa prima scoperta è stata seguita (28 marzo 1993) dall’individuazione di 1993 FW (provvisoriamente chiamato Karla), un oggetto simile al precedente, caratterizzato da una distanza eliocentrica compresa tra 39 e 48 U.A. e da un diametro di poche centinaia di km (IAUC 5730).
La portata storica di queste due scoperte viene paragonata da Stern del Southwest Research Institute del Texas (1992) alla scoperta di Cerere, il primo asteroide, nel 1801.  E non si può non condividere questo collegamento, soprattutto alla luce delle successive scoperte che, a ritmo incalzante, hanno portato ad identificare nel biennio 1993-94 ben 17 oggetti trans-nettuniani, altri 14 nel 1995 e altrettanti nel 1996; attualmente (settembre 1997) la lista degli oggetti trans-nettuniani scoperti comprende in tutto 60 corpi.
Molti di questi oggetti (circa il 40%) hanno il valore del semiasse maggiore dell’orbita molto prossimo a 39 U.A. e questo ha portato ad indagare sulla possibile esistenza di un meccanismo di risonanza orbitale con Nettuno del tipo di quello che interessa Plutone; ma sulla complessità dinamica della zona trans-nettuniana ritorneremo più avanti.  Per il momento mi preme, ancora una volta sottolineare le difficoltà osservative presenti nell'individuazione di questi oggetti: in definitiva si tratta di "scoprire oggetti delle dimensioni di una montagna, posti ad una distanza di quattro miliardi di km, su uno sfondo di velluto nero" (Stern, Comunicato stampa 186° Congresso della A.A.S., Pittsburgh, PA, 14 giugno 1995).
Appare a questo punto evidente che l’ipotesi dell’esistenza del Pianeta X debba ragionevolmente lasciare il posto a quella, osservativamente già verificata, della presenza di una nuova folta popolazione di corpi minori ai confini della zona planetaria del Sistema Solare.  Si aggiunga, quale colpo di grazia all’ipotesi dell’esistenza di un pianeta responsabile delle anomalie orbitali di Urano e Nettuno, l’analisi dei dati forniti dalla traiettoria del Voyager 2, transitato proprio in prossimità di questi due pianeti negli anni ‘80.  Questi incontri ravvicinati hanno permesso di determinare in modo estremamente accurato i valori delle masse dei due pianeti ed impiegando tali valori nel calcolo delle orbite si è potuto notare che le differenze tra i calcoli e le osservazioni si riducono al di sotto degli errori osservativi.
Già si è avuto modo in più occasioni di segnalare come i corpi che costituiscono la popolazione della Kuiper-belt si possano dividere in due grandi gruppi:
  1. la popolazione dei corpi più piccoli, di dimensioni cometarie, destinati a subire le perturbazioni gravitazionali dei pianeti giganti: al caos dinamico risultante è in ultima analisi riconducibile l'immissione delle comete a corto periodo nella zona planetaria, dove normalmente vengono rilevate.
  2. la popolazione degli oggetti più grandi (tipo QB1), i primi ad essere scoperti proprio per le loro dimensioni; a questo secondo gruppo potremmo ricondurre i Centauri e anche Plutone, il maggiore tra quelli fino ad ora scoperti.
Da quest’ultimo, però, non possiamo ricavare grandi informazioni sulla composizione superficiale del resto della popolazione della Kuiper-belt a causa delle interazioni tra la superficie e l'atmosfera.  In generale si ipotizza per questi oggetti una struttura interna ricca di abbondanti ghiacci molecolari (H2O, CO2, CO) in sintonia con la loro accumulazione nelle regioni esterne della nebulosa Solare, a temperature di soli 40-50 K.
Le superfici, secondo quanto suggerito da Luu e Jewitt (1996), sarebbero ricche di sostanze la cui struttura più complessa e polimerizzata è riconducibile all'azione dei raggi cosmici, situazione confermata anche da esperienze di laboratorio, che hanno mostrato come il bombardamento con particelle ad alta energia di miscugli di ghiacci di tipo astrofisico (H2O, NH3, CH4) provocano una perdita selettiva di idrogeno, con la conseguente formazione di residui carboniosi.  Ed è proprio tale crosta (il cosiddetto irradiation mantle), in grado anche di inibire ogni successivo fenomeno di sublimazione, che ci si aspetta di trovare come copertura superficiale di questi oggetti.
La Fascia di Kuiper, però, riveste grandissima importanza non solo per essere ormai considerata il serbatoio delle comete a corto periodo, ma anche perchè offre la possibilità, usando le parole di H. Levison (Southwest Research Institute, TX), di "avere a disposizione il migliore laboratorio del Sistema Solare per studiare la formazione dei pianeti: una regione nella quale il meccanismo di accumulazione ha fatto fiasco" (Comunicato stampa 186º Congresso della A.A.S., Pittsburgh, PA, 14 giugno 1995).
Il problema maggiore da risolvere non è, però, l'identificazione delle cause che hanno inibito l'ulteriore aggregazione dei planetesimi già formati, bensì la formazione stessa dei corpi maggiori (100<R<400 km) costituenti la popolazione della Kuiper-belt.   L'analisi dinamica effettuata (Stern, 1995) porta ad escludere una accrezione di tipo binario in quanto i tempi necessari sono di un ordine di grandezza maggiori dell'età del Sistema Solare.  Una possibile ipotesi è che tali oggetti si siano formati direttamente dalla nebulosa originaria, ma è altrettanto plausibile suggerire meccanismi alternativi ipotizzando una evoluzione del disco che, in passato, avrebbe potuto avere spessore maggiore di quello attuale: la maggiore densità potrebbe pertanto aver permesso una rapida accrezione di corpi tipo QB1.
Come si può notare, l’attività di ricerca e di analisi degli oggetti trans-nettuniani è in pieno svolgimento, sia per quanto riguarda lo studio delle loro caratteristiche fisiche che per quello, non meno avvincente, inerente le peculiarità dinamiche.  Ed è proprio dalle analisi dinamiche della popolazione dei KBO (Kuiper-belt object) che emergono interessantissime conclusioni riguardanti gli stretti legami esistenti tra questi nuovi oggetti e quelli noti da tempo (Plutone, Caronte, Tritone, Chirone, ...).
La regione dinamicamente più interessante della Fascia di Kuiper è probabilmente la risonanza di moto medio 3:2 con Nettuno; gli oggetti che popolano tale risonanza sono caratterizzati dalla stessa situazione orbitale che contraddistingue Plutone, il quale, come si è già sottolineato, compie 2 rivoluzioni intorno al Sole nel tempo in cui Nettuno ne porta a termine 3.  Questa risonanza orbitale costituisce per Plutone una vera e propria polizza per il futuro, preservandolo dalle pesanti influenze gravitazionali di Nettuno, che potrebbero finire con lo sconvolgere in modo pesantissimo la sua orbita.
Osservando i parametri orbitali degli oggetti trans-nettuniani scoperti (i dati aggiornati al settembre 1997 riportano 60 oggetti), si può notare che circa il 40% di tali corpi celesti sembra essere confinato nella stessa risonanza che caratterizza Plutone; questa circostanza ha portato i ricercatori a coniare il termine di Plutini allorchè ci si riferisca ai KBO confinati nella suddetta risonanza.  Nella figura seguente (Figura 25) sono riportati in un grafico a-e  le posizioni dei 60 oggetti scoperti (fino al settembre 1997) ed appare evidente l’addensamento di punti in corrispondenza della risonanza 3:2.
Figura 25 - La risonanza 3:2 con NettunoLa struttura dinamica della risonanza 3:2 è in realtà molto complessa, anche perchè in essa si sovrappongono altri due meccanismi distinti, la risonanza secolare n 18 e la risonanza di Kozai (Morbidelli et al., 1995).  Analisi numeriche (Duncan et al., 1995) hanno evidenziato l’esistenza di orbite stabili su tempi di almeno 4 miliardi di anni, ma anche la presenza di "vie di fuga" alle quali si possono ragionevolmente ricondurre le origini delle comete a corto periodo; ed a questo proposito dobbiamo aggiungere che si ritiene siano due i meccanismi responsabili dell’espulsione dalla risonanza 3:2 delle comete: la diffusione caotica delle orbite e veri e propri "calci" collisionali.
L’analisi della struttura della risonanza condotta attraverso simulazioni che abbracciano tempi di 4 miliardi di anni (Morbidelli, 1997a) ha confermato l’estrema complessità dei comportamenti dinamici, evidenziando l’esistenza sia di orbite regolari, non interessate (almeno entro i limiti temporali considerati dalle simulazioni) da alcun fenomeno di diffusione, sia di orbite estremamente caotiche caratterizzate da variazioni frenetiche sia del valore dell’eccentricità che dell’inclinazione e che conducono molto rapidamente (400 milioni di anni) ad incontri ravvicinati con Nettuno, sia, infine, di situazioni dinamiche che, pur avendo anch’esse come risultato finale il pesante intervento gravitazionale di Nettuno, effettuano tale incontro solo dopo un lunghissimo periodo (3.6 miliardi di anni).
Sono state individuate anche altre possibili situazioni di risonanza, ma il ridotto numero di oggetti scoperti non consente precise analisi dinamiche.  E’, comunque, lampante l’analogia con quanto, all’inizio del secolo scorso, si verificò dalla scoperta di Cerere in poi.  Le scoperte e le relative analisi sono solamente agli inizi ed il rischio di suggerire conclusioni che alla luce di scoperte successive si riveleranno sbagliate è certamente grande (è comunque il rischio che accompagna sempre l’avanzare delle conoscenze scientifiche).
Ma una cosa è certa, ed è la consapevolezza che siamo in presenza di un momento fondamentale della planetologia: la caccia al Pianeta X, dunque, non ha portato proprio ciò che si sperava di trovare, ma ritengo che il risultato sia stato decisamente più significativo.
E non si può non lasciarsi andare ad un sorriso pensando che, come hanno giustamente annotato Jane Luu e David Jewitt, lo sforzo teso a portare a 10 il numero dei pianeti ha avuto il suo curioso coronamento nel ridurne il conteggio a 8, visto che Plutone è ormai considerato il maggiore rappresentante degli oggetti della Kuiper Belt.


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